In tema di antropologia

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lupetto_sulla_zattera
view post Posted on 26/1/2010, 10:19 by: lupetto_sulla_zattera     +1   -1






Ogni individuo è una razza a sé


Il vizio di suddividere la specie umana in razze usando la biologia, e da qualche anno perlustrando i recessi molecolari del genoma, resiste strenuamente nonostante le ripetute sconfitte collezionate sul piano sperimentale. Il tenace attaccamento a un concetto vuoto - che è costato ad alcuni genetisti l’accusa di aver rimosso le razze umane soltanto per motivi politically correct - trascina la scienza nell’arena del dibattito politico e alimenta una storia piena di colpi di scena.

E’ di pochi giorni fa la notizia, apparsa sulla rivista Nature, di nuove scoperte nel campo degli studi sulla variazione genetica umana riscontrata fra individui appartenenti a popolazioni diverse del globo. Questa volta i dati comparativi non riguardano le differenze fra geni presi a caso, ma le differenze fra il numero di copie di sequenze di DNA presenti nei genomi di individui diversi. Gli scopritori sottolineano con una certa enfasi di aver trovato una “marcata variazione nel numero di copie fra le popolazioni umane”. E il dibattito si riapre. Dobbiamo intendere questa importante scoperta come un segnale di speranza per le tanto vituperate, e tanto attraenti, “razze umane”?

L’articolo di Nature, dal titolo “Global variation in copy number in the human genome”, è firmato da 43 ricercatori appartenenti a 13 istituzioni scientifiche sparse fra Nordamerica, Europa e Giappone. La prima mappa globale del genoma umano basata sulla variazione nel numero di copie di sequenze è stata realizzata esaminando il corredo genetico di 270 individui provenienti da popolazioni europee, africane e asiatiche. Il dato più impressionante è che circa il 12% del genoma è costituito da regioni di DNA che presentano variazioni nel numero di copie di sequenze.

Fra le molteplici mutazioni che possono interessare il genoma delle specie ve ne sono alcune che non modificano in singoli punti le sequenze del DNA, bensì ne alterano la lunghezza. Delezioni, inserzioni, duplicazioni e altri meccanismi possono cioè aggiungere o togliere materiale genetico da una certa regione del genoma. Si tratta di “polimorfismi” nel numero di copie dei segmenti di DNA, che influenzano poi l’espressione dei geni e la fisiologia di un organismo.

Queste mutazioni spesso sono pericolose per l’individuo, soprattutto le delezioni, perché alterano le sequenze di basi dei geni, ne pregiudicano la regolazione e causano malattie anche molto gravi. Ma il paradosso dell’evoluzione è che le mutazioni sono anche la materia prima del cambiamento, perché in presenza di una certa pressione selettiva da parte dell’ambiente una minoranza di esse potrebbe rivelarsi utile alla sopravvivenza e favorire i suoi portatori. Non solo, le duplicazioni di geni producono quella ridondanza di sequenze a cui la selezione naturale può attingere per insegnare nuovi trucchi a vecchi geni.

Un primo significato della scoperta, forse il più importante, riguarda dunque la struttura generale del genoma umano e la complessità della sua variazione. Gli scienziati hanno individuato 1447 regioni discrete di Dna con variazioni di lunghezza. Queste regioni stanno preferibilmente al di fuori dei geni e delle zone più conservatrici del genoma, che sono connesse a funzioni vitali per le quali una mutazione di lunghezza sarebbe altamente deleteria, ma in quel 12% di genoma variabile per lunghezza sono inclusi comunque centinaia di geni e di altri elementi funzionali. I dati suggeriscono una conclusione sorprendente: forse il grosso della diversità genetica umana non è dovuto a mutazioni puntiformi di singole basi, ma alla presenza o assenza di più lunghi segmenti di genoma.

Gli autori dell’articolo sono riusciti a identificare quali tipi di funzione assolvono i geni che sono interessati dalla presenza di queste regioni mutevoli. Hanno così scoperto che i geni più propensi a duplicarsi sono quelli che si occupano dell’adesione cellulare, dell’olfatto e dei processi neurofisiologici. Al contrario, i geni meno esposti a duplicazione sono quelli coinvolti nelle comunicazioni fra cellule durante lo sviluppo e nella divisione cellulare: è la prova che esiste una forte selezione negativa contro le variazioni di geni che modulano i processi di sviluppo e che controllano la proliferazione cellulare.

Una seconda implicazione della scoperta riguarda quindi il ruolo di queste regioni variabili nell’insorgenza di malattie. Gli autori mostrano come le variazioni di lunghezza nelle sequenze geniche potrebbero essere coinvolte non soltanto in alcune malattie ereditarie rare, come si è pensato finora, ma in una gamma più ampia di patologie che coinvolgono più geni e interazioni complesse fra geni e ambiente. Si tratta insomma di una forma di variazione genetica cruciale, probabilmente sottostimata finora, distribuita lungo tutto il genoma e con vaste influenze sulle caratteristiche degli individui.

Qualche dubbio sulla portata di questa mappa di variazioni umane emerge invece quando passiamo alle differenze fra le etnie esaminate. Il campione utilizzato è piuttosto ristretto, solo quattro popolazioni, selezionate per massimizzare le differenze fra continenti: le linee cellulari provengono da 90 Yoruba della Nigeria, da 90 mormoni di origine europea dello Utah, da 45 giapponesi di Tokyo e da 45 cinesi Han di Pechino. Il dato riguardante la variazione genetica umana fra popolazioni, letta in termini di numero di copie di sequenze di DNA, è dunque molto interlocutorio. Dalle comparazioni descritte nell’articolo emerge che circa l’11% della variazione nel numero di copie si presenta fra popolazioni diverse, mentre il rimanente 89% dipende da variazioni individuali all’interno di ciascuna popolazione.

Come dobbiamo interpretare questo dato? Non significa ovviamente che fra popoli diversi vi sia una differenza genetica pari all’11% dell’intero genoma. Adesso sappiamo, piuttosto, che fra i genomi di due individui qualsiasi possono esserci milioni di basi di differenza in più o in meno. Finora la varianza genetica fra popolazioni era stata calcolata comparando i geni e misurando le differenze nelle sequenze. Qui invece si misura non tanto la variabilità nella composizione delle sequenze, quanto la variabilità nella loro lunghezza. In sostanza, è possibile che fra me e un mio vicino di casa le sequenze di basi siano molto simili, ma che il numero delle loro copie sia diverso. Che dire invece delle differenze fra un europeo e un aborigeno australiano?

Il genetista di Harvard Richard Lewontin scopriva già nel 1972 che ogni essere umano, qualsiasi sia la sua provenienza, deve l’85% della sua variabilità genetica alle peculiarità individuali, mentre il restante 15% soltanto è dovuto all’appartenenza a popolazioni diverse. Si trattava di un’evidenza schiacciante contro qualsiasi tentativo di fondare geneticamente una differenza “razziale” fra gli esseri umani. L’intuizione di Lewontin fu poi suffragata da un’appassionante sequela di scoperte evoluzionistiche. La teoria dell’origine africana recente di Homo sapiens ha accumulato una tale mole di prove archeologiche e molecolari che possiamo ormai ritenerla assodata. L’intera umanità attuale è figlia di un piccolo manipolo di sapiens originatisi in Africa intorno a 200mila anni fa e poi migrati, forse attraverso ondate successive a partire da 100mila anni fa circa, in tutto il resto del mondo. Cade pertanto l’ipotesi cosiddetta “multiregionale”, secondo cui i ceppi di popolamento sapiens nei diversi continenti sarebbero stati i discendenti della diaspora molto più antica di Homo erectus. In quel caso le “razze” umane avrebbero avuto una storia di un milione e mezzo di anni alle spalle e dunque qualche ragione (biologica) di esistere in quanto varietà geografiche antichissime o addirittura sotto-specie.

Oggi sappiamo invece che la storia naturale dell’umanità non ha seguito un percorso così lineare. Fino a pochissimo tempo fa su questo pianeta esistevano almeno tre specie umane contemporaneamente, forse quattro. Quando sapiens esce dall’Africa incontra i discendenti di una diaspora più antica, cominciata 1,8 milioni di anni prima per opera di Homo ergaster. Fino a poco meno di 30mila anni fa condividono il Medio oriente e l’Europa con l’Uomo di Neanderthal. I sapiens condividono inoltre l’estremo oriente con gli erectus e incrociano sull’isola di Flores, in Indonesia, quello che molto probabilmente fu un discendente di piccole dimensioni di erectus, Homo floresiensis, annunciato con grande sorpresa nel 2004 ed estintosi a quanto pare soltanto 18mila anni fa. Le comparazioni genetiche sempre più precise sviluppate dagli antropologi molecolari - come quelle di Svante Paabo sui neanderthal, l’ultima delle quali è terminata nel settembre 2006 - hanno contribuito a dimostrare la separazione di specie fra sapiens e neanderthal.

In questa storia le “razze” trovano poco spazio. Esse si formano all’interno di una specie quando processi di isolamento geografico prolungato, o indotto per selezione artificiale come nei cani e nei cavalli, sedimentano divergenze genetiche sensibili fra i gruppi. I dati molecolari attestano che le differenze fra i popoli della Terra risalgono soltanto a qualche decina di migliaia di anni. Non c’è stato il tempo materiale perché si formassero “razze”. Inoltre, la specie umana da quando è nata ha mostrato una spiccata tendenza alla migrazione, all’ibridazione, in breve al rimescolamento dei geni. Se anche fosse iniziato un processo di differenziazione razziale, sarebbe stato ben presto vanificato da questo continuo flusso genico. Ecco perché la diversità genetica umana è distribuita in modo continuo su tutti i continenti – e in misura un po’ maggiore nella nostra culla africana che conserva le variazioni più antiche - e non presenta “grappoli” di variazioni genetiche riconducibili con certezza a razze umane.

Essendo Homo sapiens una specie giovane, discendente da un gruppo africano iniziale ristretto, i sei miliardi e più di individui che la compongono oggi sono tutti strettamente imparentati fra loro. Secondo un calcolo di Douglas Rohde, ciascuno di noi condivide con qualsiasi altro essere umano un antenato comune vissuto circa tremila anni fa. Siamo davvero tutti cugini, più o meno alla lontana. Quindi in termini assoluti la variabilità genetica fra esseri umani è bassissima.

Dentro questa ragnatela di fitte parentele e di scambi genetici, siamo però ognuno diverso dall’altro. “Tutti parenti, tutti differenti”, come ha chiosato brillantemente l’antropologo André Langaney. Ed è proprio rincorrendo queste piccole differenze fra popolazioni che genetisti come Luca Cavalli Sforza sono riusciti negli anni a ripercorrere i grandi tracciati del popolamento umano sulla Terra, le migrazioni dei primi cacciatori raccoglitori, le espansioni degli agricoltori, i meticciati e le ibridazioni che annodano le radici di tutte le “civiltà” umane. Nel 2005 un gruppo coordinato da Cavalli Sforza ha proposto una correlazione sistematica fra la distanza geografica, calcolata tenendo conto delle barriere fisiche e dei corridoi di espansione, e la distanza genetica fra individui di regioni differenti.

In questo spicchio prezioso di diversità entrano allora in gioco le minuscole ma significative mutazioni differenti previste da Lewontin, che per l’85% dobbiamo alla nostra storia individuale e per il 15% alla nostra appartenenza a un particolare gruppo di nostri simili localizzato geograficamente o storicamente, e quindi soggetto a derive genetiche e a pressioni selettive particolari che generano le superficiali (e spesso ambigue) differenze antropometriche che illudono i nostri occhi: il colore della pelle e dei capelli, la fisionomia, la carnagione, la corporatura.

Ebbene, quelle percentuali erano ottenute comparando sequenze di geni o DNA non codificante. L’articolo di Nature aggiunge nuove informazioni, relative questa volta alle differenze nel numero di copie: il dato si attesta sull’89% per la variabilità all’interno delle popolazioni (cioè differenze che si riscontrano mediamente fra due individui della stessa popolazione) e sull’11% per la variabilità fra popolazioni. Appartenere a due popolazioni diverse aumenta, mediamente, dell’11% la probabilità di avere differenze genetiche di questo tipo. Quindi il dato è ancora più basso dei precedenti e toglie altra acqua al mulino dei sostenitori delle differenze genetiche a base razziale.

Parlare di “razze” ha dunque poco senso per la genetica umana, non per il nostro immaginario politically correct, ed è meglio attenersi al più corretto termine di “popolazione”. La genetica medica può continuare benissimo a studiare le malattie tipiche di alcune “popolazioni” senza per questo riabilitare le razze. Il messaggio che emerge prepotentemente da queste scoperte è semmai quello della radicale unicità genetica del singolo individuo, da alcuni scienziati battezzata “individualità genomica”. La diversità umana si gioca in larga misura fra individui e in piccola parte fra popolazioni.

Nonostante sia chiaro da decenni che si tratta di un costrutto sociale, il concetto infondato di razza biologica umana mantiene un fascino tutto particolare. Nel 2005 lo scienziato inglese Armand Marie Leroi ha riaperto la questione sul New York Times, sostenendo che le razze umane sono identificabili attraverso non meglio identificate mutazioni correlate: gli scienziati di sinistra le rifiutano soltanto per motivi politici. Sarà, ma nel frattempo i tentativi di resuscitare le razze per via medica non sembrano convincere. L’attribuzione ai gruppi razziali di specifici complessi di geni, da cui dipenderebbero propensioni ben definite a sviluppare certe malattie, si scontra con l’evidenza empirica di una variabilità genetica umana distribuita in modo continuo nello spazio geografico e non per gruppi distinti. Che utilità può avere, a parte quella della propaganda commerciale, ricorrere a etichette razziali per progettare farmaci mirati su malattie la cui origine genetica è con molta più probabilità identificabile studiando le varianti individuali?

Come ha mostrato con efficacia e gradevolezza di stile il genetista Guido Barbujani nel suo ultimo libro, L’invenzione delle razze (Bompiani, 2006), né gli antropologi né i politici si sono mai messi d’accordo su una classificazione condivisa delle presunte razze umane: “a seconda del carattere considerato, variano il numero e la definizione delle razze”. Da Linneo a Buffon, da Blumenbach a de Gobineau, fino a Carleton Coon negli anni sessanta del Novecento, ciascuno si è costruito la propria scala razziale su misura. Perfino le polizie di New York e di Londra, ancora oggi, per identificare i delinquenti usano tipologie razziali completamente diverse. Così i genetisti, se si mettono a osservare nel dettaglio quel 15% o 11% di variazione fra continenti, notano che non vi è alcuna distribuzione coordinata di pacchetti di varianti fra le popolazioni: cambiando i tratti di DNA in esame cambiano completamente le mappe geografiche corrispondenti. Alla fine, come ha ironicamente concluso Paabo, ogni individuo fa razza a sé.

Eppure alcuni scienziati americani tornano a sostenere tesi secondo cui “bisogna tener conto della razza per non buttar via soldi in farmaci inutili o in progetti scolastici destinati a fornire inutili vantaggi a chi è condannato dai propri geni a non farcela”. Segno che le razze esistono, certo, ma come confini ben radicati nelle nostre teste e in quella sfera inventiva della natura umana che chiamiamo “evoluzione culturale” e che con i geni instaura un rapporto di parentela sì, ma non di obbedienza.

Telmo Pievani
 
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